segunda-feira, 17 de setembro de 2012

Thomas H. Green : CHE COS'È LA PREGHIERA


Thomas H. Green

CHE COS'È LA PREGHIERA




Una guida alla preghiera

Per parecchi anni sono stato direttore spirituale in un Seminario Maggiore. Il lavoro del direttore spirituale è l'unico per cui non sem­bra esservi nessun tirocinio, eccetto l'esperienza.

Il direttore spirituale è una miscela curiosa: un alter ego, o un altro se stesso, uno che condivide con i giovani ciò che è più pre­zioso e più provato per loro, il loro proprio io. Egli è qualcosa co­me un guru, da cui essi sperano di imparare «mantra» segreti: è una spalla forte su cui appoggiarsi nei periodi tribolati e una cas­sa armonica per le loro speranze ed i loro progetti. In tutto que­sto, mi sembra che il direttore spirituale sia soprattutto un ascol­tatore. Veramente, la cosa più difficile che egli deve imparare è ascoltare: non passivamente, ma creativamente e in modo ap­propriato.

Bruscamente, sull'importanza e la difficoltà di ascoltare, mi furono aperti gli occhi in un'occasione. Un bel seminarista stava ini­ziando un ritiro diretto, ed io, nel mio stile usuale, desideravo metterlo tranquillo spiritualmente e aiutarlo ad aprirsi. Quando ci incontrammo la sera per discutere su come era trascorso il primo giorno, cominciai ad interrogarlo sulla sua esperienza. Egli tagliò corto dicendo: «Prima di iniziare vorrei chiederle un favore». «Di che cosa si tratta?» chiesi. Mi rispose: «Tutte le volte che inizia a parlare, io divento nervoso e dimentico ciò che desideravo dire. Così, per favore, non dica nulla, fino a che io abbia finito di con­dividere ciò che vorrei condividere». Nei giorni successivi riuscii con successo (eroicamente!) a tacere e da allora ho scoperto che, per me, da quel chiacchierone che sono, imparare ad ascoltare be­ne richiede molta disciplina.

Quando rifletto su questi anni passati ad imparare ad ascolta­re, mi rendo conto che il grande sforzo richiesto mi ha insegnato sulla preghiera molto più di qualsiasi altro aspetto del mio mini­stero sacerdotale: sia perché l'arte dell'ascolto mi sembra il cuo­re della preghiera, sia perché la preghiera stessa è stata l'argomento principale di cui i seminaristi hanno voluto parlare. Sorgono mol­ti problemi: famiglia, studi, vocazione, celibato, comunità. E il lo­ro continuo ricorrere nelle nostre conversazioni, è preghiera. La do­manda di base è: ma che cosa è la preghiera? Non possiamo par­lare veramente di come pregare, fino a quando non abbiamo un'i­dea precisa di che cosa è la preghiera.

Quelli di noi che sono abbastanza anziani hanno imparato pre­sto a definire la preghiera «elevazione della mente e del cuore a Dio». Questa era una definizione molto facile da memorizzare: chia­ra e concisa. Una buona definizione. Ci ha insegnato che:

1) Dio è molto al di sopra della nostra normale esperienza;

2) pregare com­porta sforzo da parte nostra;

3) pregare coinvolge la mente e il cuo­re - comprensione, sensibilità e volontà - dell'uomo.

Se ap­profondiamo questi tre elementi, forse riusciamo ad avere un qua­dro più chiaro proprio di che cosa dovrebbe essere la preghiera.

L'ultimo punto - il posto del cuore nella preghiera - è im­portante e non sempre è stato ben chiaro. Per molti dei padri del deserto e dei teologi della Chiesa primitiva, forse perché larga­mente influenzati dalla filosofia greca, la preghiera era soprattutto materia per la comprensione e la conoscenza. Qualcosa di simi­le era la teologia, che cercava di mettere la ragione al servizio della fede, di usare la ragione per capire e per chiarire il mistero del­la rivelazione divina. il teologo e l'uomo di preghiera non diffe­rivano tanto in quello che facevano, infatti entrambi ricercavano una conoscenza, quanto nei mezzi che usavano per raggiungerla. Il teologo usava le sue facoltà naturali di ragionamento e dì ri­flessione, mentre l'uomo di preghiera, nella tradizione antica, usa­va tecniche esoteriche e segrete, che si supponeva conducessero ad una via privilegiata, soprannaturale, «mistica», di conoscenza di Dio e di comprensione della realtà ultima.

Questa visione della preghiera e della spiritualità fu subito condannata dalla Chiesa come eretica. Il suo maggior difetto non fu comunque l'accento sulla comprensione rispetto alla relativa trascuratezza del cuore. La pecca realmente fatale di queste prime teorie di preghiera riguardava maggiormente il secondo dei tre punti che abbiamo summenzionato, e cioè, che la preghiera com­porta sforzo da parte nostra. Fu condannata per la rilevanza ec­cessiva dello sforzo personale dell'uomo. Nella terminologia par­tigiana del tempo, essa fu definita «pelagiana» o «semi-pelagia­na», in quanto seguiva il teologo Pelagio nel sovrastimare la ca­pacità dell'uomo di incontrare Dio, in base agli sforzi personali, e nel negare il primato assoluto della Grazia di Dio. C'è un ba­ratro incalcolabile tra Dio e l'uomo; l'uomo, per quanto possa im­pegnarsi, non può raggiungere Dio, non può scavalcare l'im­mensità. Non può neppure, come asseriscono i semi-pelagiani, fa­re il primo passo per arrivare a Dio. Questi solo può saltare l'im­menso abisso tra il Creatore e la creatura: questo è quanto Gesù ha fatto nell'incarnazione ed è quanto fa nella vita di ogni uomo di fede che vuole incontrarlo veramente.

Sebbene la concezione semi-pelagiana sia facilmente relegabile nella pattumiera della storia temo che la situazione reale non sia altrettanto semplice. Se penso ai miei stessi anni di scuola di pre­ghiera, devo riconoscere che anche in me c'è stata forse una buo­na dose di semi-pelagianesimo. Le strutture nelle quali sono sta­to formato tendevano a porre l'accento su un tipo di spiritualità «re­golabile come il cinturino degli stivali». Durante il noviziato, il momento di preghiera era rigidamente prescritto. I libri sull'argomento erano provvisti di meditazione strutturate; meditavamo in 60 per stanza; l'unica po­sizione accettabile era in ginocchio. Se qualcuno non si inginoc­chiava durante la preghiera, poteva aspettarsi una convocazione dal direttore dei novizi ed un interrogatorio per sapere se fosse mala­to. Io stesso tremavo per tutta la durata di alcuni di questi incon­tri; allo stesso tempo, mentre li temevo, capivo che sviluppavano il mio carattere e la mia autodisciplina. Più tardi ancora, quando io stesso divenni direttore spirituale, mi resi conto che queste re­gole facevano parte dello spirito diffuso di un periodo in cui ascetismo, abnegazione, soppressione della propria volontà e dei propri desideri erano, in un certo senso, al cuore della spiritualità. Era come se il misterioso messaggio di Gesù: «dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il Regno dei Cieli soffre violen­za e i violenti se ne impadroniscono» (Mt I 1,12), fosse da porsi, da solo e fuori da ogni contesto, come base per l'intera spiritua­lità.

Il frutto della controversia semi-pelagiana è stato quello di far­ci capire che il nostro sforzo personale è completamente secondario rispetto al lavoro di Dio nell'incontro con noi. Da qualche tempo penso che questo sia il difetto nella definizione tradizionale di pre­ghiera, con cui abbiamo iniziato questo capitolo. L'idea di eleva­re la nostra mente ed il nostro cuore a Dio mi sembra ancora sup­porre che la preghiera sia materia del nostro sforzo personale, che Dio sia soltanto spettatore, mentre noi cerchiamo modi e signifi­cati per elevarci a Lui. Una concezione simile sarebbe ovviamen­te semi-pelagiana, e quindi inaccettabile per il cristiano.

Da quando recentemente i cristiani hanno mostrato molto in­teresse allo Yoga, allo Zen e loro derivati, è importante annotare, in questo contesto, che una visione simile trova un supporto con­siderevole nelle grandi religioni orientali come l'induismo ed il Buddismo. In queste tradizioni orientali che non conoscono un Dio personale, pregare dipende completamente dallo sforzo dell'uomo anche se quello sforzo, abbastanza paradossalmente per gli occi­dentali, è applicazione totale per vuotare la mente, per raggiungere la pace, la non-azione. È importante notare comunque che, perfino nelle tradizioni più comuni - e particolarmente nella letteratura clas­sica dell'induismo - ci sono affermazioni sulla personalità di Dio e i segni di una dottrina della Grazia. Ne La Bhagavad Gita, il Benedetto dice dei suoi veri discepoli:


«A coloro che sempre Mi servono e Mi adorano con amore e devozione do l'intelligenza con la quale potranno venire a Me».


All'interno dell'induismo ci sono state delle dispute sul signi­ficato letterale di testi come questo. Ma per noi cristiani non vi può essere dubbio: Dio è una persona (in effetti, tre persone!) e pre­gare è un incontro personale con Lui. Oltre a questo è un incon­tro che dipende quasi interamente dalla Sua Grazia, poiché Egli è Dio.

Questo non è il luogo per tentare di spiegare al cristiano con­fuso che cosa vi sia esattamente alla fine del cammino di preghiera per l'induista o il buddista contemplativo. Penso semplicemente che la preghiera cristiana è fondata su una specifica concezione di Dio: un Dio personale che incontra le sue creature che ama.

Tornando alla definizione tradizionale, la concezione della pre­ghiera come elevazione della mente e del cuore a Dio sembra sol­lecitare eccessivamente il nostro sforzo personale e la nostra atti­vità nella preghiera stessa. Da qualche tempo suggerisco che un ap­proccio migliore sarebbe quello di definire la preghiera come un'apertura della mente e del cuore a Dio. Mi sembra migliore per­ché l'idea di apertura accentua la ricezione e la sensibilità verso un'altra persona. Aprirsi ad un altro è agire, ma agire in modo ta­le che l'altro rimanga la parte dominante.

Forse l'esempio più chiaro di apertura è l'arte dell'ascolto, di cui abbiamo discusso all'inizio del capitolo. Ascoltare è davvero un'arte, che alcune persone non imparano mai. Tutti noi ab­biamo conosciuto persone che non ascoltano. Esse sentono, ma non capiscono. Il loro orecchio corporeo raccoglie il suono, ma il loro cuore non è attento al suo significato. Puoi parlare a lo­ro, ma puoi parlare a mala pena con loro. JHWH usa questa im­magine di sentire ma di non ascoltare per esprimere la sua fru­strazione con Israele: «Questo dunque ascoltate, o popolo stol­to e privo di senno, che ha occhi ma non vede, che ha orecchi ma non ode» (Ger 5,21); e Gesù utilizza le stesse espressioni quan­do parla ai suoi «ascoltatori» dopo la moltiplicazione dei pani: «Perché discutete che non avete pane? Non intendete e non ca­pite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate?» (Mc 8,17-18).

Sentire o ascoltare sono metafore utili per la preghiera. Il buon orante è soprattutto un buon ascoltatore. La preghiera è dia­logo; è un incontro personale d'amore. Quando comunichiamo con qualcuno che ci è caro, noi parliamo ed ascoltiamo. Ma il no­stro parlare è anche rispondente: quanto diciamo dipende gene­ralmente da quanto l'altro ci ha detto. Altrimenti non è vero dia­logo, ma piuttosto due monologhi che corrono paralleli.

Credo che queste osservazioni ci abbiano condono sulla via giusta per la comprensione di che cosa è la preghiera. In passa­to abbiamo catalogato la preghiera sotto quattro titoli: Adorazione, Contrizione, Ringraziamento e Supplica. Questo aiuta a chiarire che la preghiera è molto più vasta della mera richiesta di co­se (cioè della supplica). Abbiamo visto che da parte nostra è ne­cessario andare più a fondo in questi quattro punti, per arrivare al significato vero della preghiera. La preghiera è essenzial­mente un incontro di dialogo tra Dio e l'uomo; e poiché Dio è il Signore, Egli solo può iniziare l'incontro. Questa è l'implicazione importante del primo elemento della nostra definizione tradi­zionale. Ne segue che ciò che l'uomo fa o dice nella preghiera dipenderà da quello che Dio fa o dice prima di lui. Qui soprat­tutto è vero che «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). La scelta di Dio, la sua chiamata, è fondamentale e più importante di tutto.

Allo stesso tempo, quindi, la preghiera è un dialogo, un incon­tro tra due persone. Quello che l'uomo fa o dice è parte integrale della preghiera, dal momento che persino Dio non può parlare con noi, se noi non rispondiamo. Dio stesso non può dialogare con l'uomo che interiormente è sordo e muto.

Questo era il secondo elemento valido nella definizione tradi­zionale: pregare implica sforzo da parte dell'uomo, anche se è Dio che ci raggiunge attraverso l'infinito, ed anche se lo sforzo dell’uomo è esso stesso impossibile senza il sostentamento della Grazia di Dio.

D'altra parte, come chiarisce il terzo elemento della definizio­ne tradizionale, la risposta dell'uomo coinvolge sia la sua mente che il suo cuore. La comprensione ha un ruolo importante nella pre­ghiera, dal momento che l'uomo non può amare ciò che non co­nosce. Il suo amore è proporzionato alla sua conoscenza: e, contemporaneamente, la preghiera non è puro ragionamento o spe­culazione su Dio. Come santa Teresa d'Avila dice nel Castello Interiore: «L'essenziale non è già nel molto pensare, ma nel mol­to amare». Lo scopo della preghiera è l'incontro con Dio nell'amore. E l'amore - come Teresa continua - «consiste, non nell’estensione della nostra felicità, ma nella fermezza della nostra determinazione nel tentativo di piacere a Dio in ogni cosa». La pre­ghiera perciò coinvolge il cuore e la volontà dell'uomo, perfino più a fondo della sua comprensione.

Fu sant'Agostino, uno dei più grandi intellettuali che la Chiesa abbia prodotto, che disse: «il nostro cuore non ha quiete finché non riposa in Te». Per l'uomo erudito il compimento può essere nella mente che raggiunge la tranquillità, ma per l'uomo di fede, per l'innamorato, è il cuore che importa maggiormente.

In questa relazione è importante notare che la spontaneità è la vera essenza della preghiera, come lo è di tutti i dialoghi. Il «cuore» per sant'Agostino è un organo spontaneo, che risponde al sacramento di questo momento. La sua risposta non può essere programmata, perché non possiamo conoscere in anticipo quan­to Dio ci dirà in ogni momento donato. Quando eravamo novi­zi, ci esortavano a programmare le nostre conversazioni della ri­creazione, presumibilmente perché gli argomenti discussi fossero fruttiferi ed elevati. Il risultato, naturalmente, erano delle con­versazioni pompose, e degli incontri divertenti, ma soprattutto fru­stranti, dove ogni partecipante si impegnava forsennatamente per portare il discorso sull'argomento che egli aveva programmato. Da allora ho sentito la stessa cosa negli incontri di società ed ai ricevimenti, con gli stessi ridicoli risultati. Nel noviziato l'in­tenzione era buona, ma la perdita di spontaneità, disastrosa. La stessa cosa si verificherebbe in un approccio programmato alla preghiera.

Per il principiante c'è ancora confusione e mistero nell'a­scolto di Dio. Per l'uomo di preghiera esperto non c'è più confusione, ma rimarrà sempre il mistero. Poiché non incontriamo mai Dio nello stesso modo in cui incontreremmo un essere uma­no, come possiamo sapere quando Dio ci parla? Come interpre­tare quello che «dice», quando Egli non parla come un uomo? Come posso rispondere significativamente a qualcuno la cui ve­nuta è sempre nascosta nel mistero della fede? Brevemente, co­me so che non sto parlando solo a me stesso, quando prego?


CI SONO DELLE TECNICHE DI PREGHIERA?

Abbiamo trattato varie tecniche per raggiungere una pace attenta davanti al Signore. Non tutte sono proprio preghiere - cioè un incontro personale con Dio nell'amore - ma sono normali prerequisiti per la preghiera
Lo sforzo per arrivare alla pace non è preghiera. Verrà il mo­mento in cui colui che contempla dovrà chiudere gli occhi, la mu­sica di sottofondo dovrà essere spenta, anche il vagabondo dovrà sedersi e il devoto di giaculatorie dovrà stare zitto, cioè il tempo del «Fermatevi e sappiate che io sono Dio» (Sal 46,11).

Gli ultimi quindici anni (l’autore scrive nel 1977) sono stati un periodo di insolito fermento nella Chiesa, col cambiamento radicale ed il superamento improvviso di molte istituzioni e pratiche consolidate. La forma­zione alla preghiera non è stata esente da questo fermento. Per ge­nerazioni i principianti nella preghiera sono stati educati con libri sull'argomento ed altri sussidi per la meditazione. I seminaristi im­paravano a pregare riunendosi nella cappella del seminario per la lettura giornaliera di una meditazione con pause appropriate per riflettere personalmente su quanto avevano sentito. Perfino i colloqui, o le conversazioni personali con Dio, che si supponeva concludessero il momento di preghiera, spesso erano lette ad alta voce a tutto il gruppo, oppure spiegate in un libro. La preghiera co­siddetta mentale aveva una struttura ben definita: azioni preparatorie, lettura del testo, riflessione personale e colloquio conclusi­vo. Imparare a pregare significava familiarizzare con questa strut­tura e permetterle di diventare una seconda natura nella propria vi­ta. I modelli che potevano sostenere una persona per 50 anni a ve­nire erano così acquisiti.
Poi, a metà anni Sessanta, le cose improvvisamente cambiarono. L'intera struttura, il libro adatto per l'approccio alla preghie­ra, sembravano troppo rigidi ed impersonali in un mondo guida­to dallo Spirito. L'aria nuova che il grande papa Giovanni XXIII portò nella Chiesa sembrò far vacillare la struttura che durava da tanto tempo. La preghiera doveva essere personale, spontanea, unica per quel momento. Com'era possibile costringere lo Spirito di Dio in strutture di preghiera ripetitive e meccaniche inventate dall'uomo? Chi, dopotutto, poteva insegnare a un'altra persona co­me pregare, o giudicare sulla genuinità dell'incontro dell'altro col Signore?
Molte persone coinvolte nell'educazione persero fiducia in lo­ro stesse e nelle loro potenzialità, abbandonando il ruolo formativo che avevano assunto. Dando spazio a questi drastici cambiamenti, un uomo o una donna qualsiasi (specialmente un figlio del Vaticano I), come poteva presumere di insegnare ad un altro come incon­trare Dio? Padre Henri Nouwen in un capitolo classico di Intimacy intitolato «Depression in the Seminary», trattava gli effetti globa­li, psicologici e spirituali, di questo crollo di fiducia. Ciò provocò una situazione nella quale le guide erano incapaci o poco propen­se a guidare, e i fedeli gradualmente scoprivano di vagare da soli nelle tenebre. Pur rispettando l'educazione nella preghiera, nessuna formazione veniva considerata la migliore o, per lo meno, l'uni­ca possibile.
Se questo sembra esagerato, ricordo bene una situazione che mostra la drammaticità di questo cambiamento drastico ed improvviso nella formazione. Quale studente laureato all'Università di Notre Dame verso la fine degli anni Sessanta, ero cappellano ufficioso delle religiose che studiavano per la laurea. Per la mag­gior parte delle suore, gli studi di laurea erano (come l'ordinazione sacerdotale per un gesuita) la ricompensa per una vita spesa be­ne; esse avevano già superato la trentina e ne avevano già visto gli aspetti più oscuri. Perciò le nostre discussioni spesso si con­centravano sui difetti della nostra formazione e particolarmente sull'approccio eccessivamente strutturato e meccanico alla pre­ghiera, dal quale sembrava che noi spasimassimo di liberarci.
Una suora, appena uscita dal noviziato e molto più giovane del­le altre, partecipava attivamente alle nostre discussioni, ma fu so­lo in una conversazione privata con lei, un giorno, che mi resi con­to di quanto le sembrasse sorpassata la nostra inattività. Diceva che poteva apprezzare le difficoltà espresse dagli altri, ma non pen­sava che essi capissero quanto fosse già cambiata la situazione. Esse si concentravano sulla mancanza di libertà dello spirito; ma il suo problema, ed ella pensava fosse anche di quelli della sua età, era che nessuno aveva dato loro una guida precisa su come pre­gare. Erano assoggettati a un approccio alla preghiera del tipo «nuota o affonda»: getta il neonato nell'acqua e/o impara a nuota­re (a pregare) oppure annega. Quello che sentiva mancare di più era una guida per imparare a nuotare nel mare del Signore.
In quel tempo ero spaventato, ma solo col passare degli anni, da quando ho condiviso questa esperienza con molte persone de­gli anni dopo il Vaticano II, mi sono convinto di quanto esattamente ella rappresentasse i loro sentimenti. L'approccio “nuota o affon­da”, con l'aiuto della grazia, può forse produrre degli effettivi uomini di preghiera in giovane età, ma solo al prezzo di molti tra­gici annegamenti!
La nostra storia naturalmente, non finisce qui. Poco dopo il ri­getto del metodo classico di preghiera, cominciò la ricerca di me­todi e tecniche nuove e migliori: il fascino dell'Oriente nelle for­me pure dello Yoga e dello Zen, così come i loro ibridi commer­cializzali quali la meditazione trascendentale; l’istituzionalizzazione graduale delle strutture di preghiera carismatica; la ricerca di gu­ru dal quali acquisire la chiave per entrare nel regno interiore. L'implicazione era, in altre parole, che non era in sé sbagliato avere un metodo, ma i vecchi metodi erano difettosi. Tra quanti og­gi cercano di incontrare il Signore c'è stato un ritorno al metodo pur senza tornare al modi tradizionali.
È in questo contesto che dobbiamo interrogarci sulla tecniche di preghiera. Domandare se ce ne sono alcune, 15 anni fa sareb­be apparso fondamentalmente sbagliato, perché la convinzione era del tipo: naturalmente ci sono! E solo cinque anni dopo la ri­sposta di molti, data con la stessa convinzione, sarebbe stata: «Naturalmente no!». Ora, forse, non siamo così sicuri. Vogliamo le tecniche, ma temiamo la rigidità delle tecniche costituite. Andando ancora più a fondo, quella che forse realmente vogliamo è una tecnica che sia innocua, veloce e indolore e che non comporti la fatica e l'incertezza del passato. Se è così, stiamo cercando una scorciatoia per la santità e abbiamo già detto che non esiste una pos­sibilità simile. In questo senso non ci sono tecniche meccanicamente efficaci nella preghiera.
Non scartiamo comunque così velocemente l'intera domanda sulla tecnica o sul metodo. La nostra incertezza oggigiorno è sa­lutare e riflette un problema autentico nella preghiera. Come pos­siamo imparare senza che qualcuno ci insegni? (cfr Rm 10,14). E ancora, come passiamo essere istruiti senza «incatenare lo Spirito» (cfr 2 Tm 2,9) e imporre le nostre vie a Dio?
L'ultima domanda solleva un punto fondamentale, cominciamo quindi da qui. Poiché lo Spirito è libero di «soffiare dove vuole» (Gv 3,8) e di parlare come e quando preferisce, chiaramente, non può esserci alcuna tecnica per farlo parlare. Non possiamo accen­dere e spegnere Dio come un rubinetto dell'acqua o una lampadi­na. Per questo non ci sono tecniche. È così radicale la nostra dipendenza dalla benevolenza del Signore, che non possiamo nep­pure desiderare di pregare, a meno che Dio non ci guidi. Perfino gli esordi sono un puro dono. Per cui non ci sono tecniche di «meditazione», siano esse yoga o trascendentali o ignaziane, che possano mai garantire un incontro con il Signore.
D'accordo su questo punto molto importante, torniamo alla prima domanda di poco fa: come possiamo imparare a pregare sen­za che qualcuno ce lo insegni? Da quanto detto nel paragrafo pre­cedente potrebbe sembrare che l'insegnamento umano abbia pro­prio poca rilevanza qui, e che Dio parli a chiunque Egli desideri e quando lo decide, e che questo sia tutto quel che possiamo dire.
Ma per accettare tale affermazione si deve passar sopra alla na­tura apostolica e sacramentale della Chiesa: Dio ha scelto di lavorare attraverso gli uomini e di realizzare il Suo dono di grazia in segni visibili, strutturali. In riferimento alla preghiera, Egli ha voluto che imparassimo attraverso l'insegnamento di altre persone. Quando ero giovane, un giorno decisi di leggere Giovanni della Croce. Ero impaziente di imparare a pregare e la cosa migliore mi sembrava quella di sedermi ai piedi di un maestro riconosciuto. Ma più leg­gevo e più diventavo inquieto; sembrava che, se Giovanni avesse avuto ragione, tutta la mia vita intellettuale ed apostolica, come ge­suita, era sbagliata. Fortunatamente, prima di ritirarmi a vita ere­mitica, parlai con il mio direttore spirituale. Quello che mi disse ferì il mio orgoglio; ma era proprio ciò che avevo bisogno di sen­tire: «Forse non sei ancora abbastanza maturo per leggere Giovanni della Croce e capirlo. Forse devi solo aspettare un pò prima di trar­re profitto dal suo insegnamento». Il consiglio fu doloroso da ac­cettare, ma lo seguii e da allora l'ho ripetuto ad altri più di una vol­ta! Ma, per essere più precisi, che cosa può insegnarci esattamen­te una buona guida spirituale? In che senso ci sono tecniche e me­todi dì preghiera comunicabili?
Credo ci siano due sensi nei quali possiamo parlare legittima­mente di tecniche di preghiera.
1) In primo luogo, possiamo parlare di metodi per raggiungere la pace, per portare noi stessi a quel si­lenzio nel quale è possibile sentire la voce di Dio.
2) In secondo luogo, possiamo parlare di tecniche che ci dispongano positivamente all'incontro con il Signore. Per il cristiano, naturalmente, non è pos­sibile, niente di buono è possibile, senza la grazia di Dio. Ma cia­scuno rappresenta un caso particolare in cui noi possiamo e dob­biamo cooperare con la grazia per aprire noi stessi alla venuta del Signore nella nostra vita.

San Giovanni della Croce, con santa Teresa d'Avila, preminente dottore della Chiesa sulla preghiera, cominciò a trattare l'argo­mento sottolineando quella purificazione dell'anima che deve pre­cedere l'incontro di trasformazione con Dio. Egli distingue tra due possibili purificazioni: attiva e passiva. La purificazione attiva è quella che noi possiamo fare per disporci verso Dio; la purificazione passiva è quella che Dio fa per disporci nei suoi confronti. Per Giovanni la purificazione passiva - quello che Dio fa per purificarci - è di gran lunga la più importante, ma egli non è af­fatto un quietista o un passivista; per lui, il nostro contributo, seb­bene secondario, è essenziale per la crescita. Non possiamo semplicemente sederci e lasciare tutto a Dio. Nella preghiera, per Teresa e Giovanni, Dio aiuta coloro che fanno quello che possono per aiutare loro stessi.
Supponiamo che voglia ascoltare un programma radiofonico o televisivo: devo allontanarmi da altri rumori che disturbano, op­pure eliminarli e questo per raggiungere la tranquillità; e devo ac­cendere e sintonizzare la radio o la televisione: questo è dispormi positivamente all'ascolto. Non sarà possibile ascoltare se la stazione non sta trasmettendo, ma entrambi gli atteggiamenti sono neces­sari se voglio ascoltare un programma. Esaminiamo ora ogni aspetto della nostra analogia con la radio, applicata alle tecniche di preghiera.
Dio, ovviamente, è Colui che trasmette, e il nostro cuore e la no­stra mente sono l'apparecchio ricevente. Come ce la caviamo nell'estraniarci da altri rumori che disturbano e nell'eliminarli? Come cioè, raggiungiamo la tranquillità? il primo punto che possiamo fis­sare è che raggiungere la pace è essenziale per la preghiera. Che la nostra analogia con la radio o la televisione sia applicabile alla pre­ghiera risulta chiaramente da un famoso passaggio del Primo Libro dei Re (19,11-13). Il profeta Elia ha destato l'ostilità della malva­gia regina Gezabele che minaccia di ucciderlo per le sue profezie. Impaurito e scoraggiato, egli si inoltra nel deserto per una giorna­ta di cammino e si sdraia per morire. Ma l'angelo del Signore lo nu­tre e lo guida sul Monte Oreb per parlare col Signore. Ci è detto che egli rimase sulla montagna ad aspettare.
«Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un ter­remoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero».
E questo mormorio era la voce del Signore. Elia sentì la paro­la salutare del Signore, ma solo quando riuscì ad ascoltare quel «mormorio leggero». Dio parla nel silenzio e solo quelli che han­no la pace del cuore possono ascoltare quanto Egli dice.È nel raggiungimento della pace, che le tecniche Yoga e Zen pos­sono essere di aiuto all'uomo di preghiera. Sono essenzialmente metodi antichi per allontanarsi dalle distrazioni della vita quotidiana e per raggiungere quello che Buddha chiamerebbe: «il centro fer­mo del mondo che gira» (La frase è usata da un eminente scrittore buddista contemporaneo, Christrmas Humphreys - Buddhismo, Roma, Ubaldini, 1999). Nel corso dei secoli, Yoga e Zen han­no sviluppato regole e procedure altamente specializzate, ma in fon­do basate sull'esperienza: tentativi dei santi uomini orientali di con­dividere con i loro discepoli i metodi che essi hanno ritenuto va­lidi per raggiungere la pace. Essi non sono fini a loro stessi e nep­pure sono dei metodi magici di un qualche tipo, ma sono mezzi che molti hanno trovato validi per il raggiungimento della vera pace del cuore; e possono essere utili per il cristiano e per il buddista.
Non sono comunque gli unici mezzi per raggiungere questa me­ta. Infatti, quando io stesso ho scoperto lo Yoga e ho tentato di pra­ticare alcuni esercizi di base, mi sono accorto che avevo già im­parato, o scoperto da solo, delle tecniche simili. Gli atti preparatori del vecchio schema di meditazione avevano uno scopo analogo, se esattamente capiti e praticati. Uno consisteva nello scegliere al­cuni momenti nei quali ricordare i temi della scrittura della preghiera del giorno; ricordare chi è Dio e chi sono io, e quale cosa meravi­gliosa sia che Dio possa parlare con me (l'analogia con l'entrare alla presenza di un re umano veniva spesso usata); «mettere se stes­si alla presenza di Dio con riverenza ed umiltà». Questi passi, adat­tati alle circostanze dell'individuo, costituiscono ancora dei mez­zi efficaci per raggiungere la pace attenta.
Allo stesso modo, la gente spesso mi domanda se è corretto camminare durante la preghiera. Sant'Ignazio menziona diver­se posizioni utili alla preghiera: seduti, in ginocchio, in piedi, ste­si proni o supini ma, significativamente, non cita il camminare.
Credo che la ragione sia che, camminare o passeggiare tran­quillamente possono essere dei mezzi molto utili per raggiungere la tranquillità e la pace attiva, ma sarebbero una distrazione quan­do siamo in pace alla presenza del Signore. Notate come due ami­ci che passeggiano insieme spesso si fermano e si guardano in fac­cia quando arrivano ad un punto di profonda condivisione. Il loro passeggiare crea, per così dire, lo stato d'animo per l'incontro. Anche della buona musica classica può essere uno strumento mol­to efficace in questo raggiungimento della pace e di uno spirito at­tento e concentrato.
Ho l'impressione che da qui abbiano avuto origine le giacula­torie come forma di preghiera. Come la preghiera di Gesù dell’ortodossia o il mantra dell'induismo e del buddhismo, la giaculatoria era una breve formula di preghiera ripetuta più volte. Questa ripetizione del­la stessa formula, lentamente e con calma, può essere un notevo­le aiuto per calmare lo spirito distratto. Ma il successivo accento sulle indulgenze per recitare le giaculatorie può aver oscurato il va­lore reale di queste brevi preghiere. Se ci preoccupiamo di contabilità soprannaturale, è il numero di tali preghiere dette che attira la nostra attenzione, piuttosto che il loro valore nel portarci in pa­ce davanti al Signore.
Persino la struttura ripetitiva del Rosario sembra essere egual­mente preziosa in questo senso: così il contenuto specifico delle pre­ghiere del Rosario (e questo vale anche per le giaculatorie o per la preghiera di Gesù) non risulterebbe così importanti. Questo mo­do di pregare diventerebbe invece, essenzialmente, un aiuto nel rag­giungimento di uno spirito devoto e di un cuore tranquillo e attento.
Ho scoperto che l'ufficio divino è utile al raggiungimento dello stesso fine. Spesso la gente mi domanda come dargli più sen­so: sembra che trovi nella struttura familiare e nelle frasi ripetiti­ve una fonte di noia e di monotonia, piuttosto che un aiuto alla de­vozione. Comunque, se l'ufficio è visto essenzialmente come un modo per raggiungere la pace davanti a Dio, per farci ricordare il Suo amore e la Sua provvidenza in alcuni momenti cardine della giornata, piuttosto che una fonte di nuove idee su Dio e sul Suo spa­zio nella nostra vita, allora, forse, la ripetizione di frasi familiari può essere vista sotto una nuova e più proficua luce.
I mezzi che ho suggerito, cioè le giaculatorie, il Rosario e, specialmente, l'ufficio divino, sono già propriamente delle preghiere, poiché comportano il raggiungimento della pace davanti o alla pre­senza di Dio. Santa Teresa usò questo aspetto della preghiera vocale per raggiungere la pace alla presenza del Signore, la preghiera del raccoglimento.
Altre semplici pratiche, sebbene non esplicitamen­te preghiere nello stesso senso, possono essere d'aiuto nel portarci alla tranquillità e nell'aprirci a Dio. Per esempio, gli psicologi suggeriscono di concentrarci sul nostro stesso corpo: prima sul no­stro piede destro, «pensando» gradualmente al nostro alluce in uno stato rilassato poi alle altre dita singolarmente, poi al collo del pie­de, alla caviglia, al polpaccio, alla coscia e così via fino a quando tutto il corpo sia rilassato. Ho tentato questo metodo con vari gruppi e siamo rimasti felicemente sorpresi di quanto possa aiu­tare. Un importante vantaggio collaterale è che spesso esso ci rivela dov'è la nostra vera tensione o la nostra inquietudine. La gente diceva: «Sono completamente rilassato, eccetto la bocca», o «... eccetto un pezzo di fronte tra gli occhi». E’ un ottimo rive­latore della sorgente della nostra ansietà; quando ce ne rendiamo conto, possiamo cominciare a lavorare in modo concentrato, ma tranquillo, per superarla.
Un altro esercizio, che ho scoperto per me stesso e che ho tro­vato molto utile è il seguente: andare in un luogo dove si abbia una veduta panoramica della natura, e dove si possa lasciar errare lo sguardo sull'intero scenario (per esempio, il lato di una collina che domina una foresta). Mi piace molto, perché mi permette di vagare con lo sguardo sulla scena senza premura e senza alcuna fatica per sforzare la concentrazione. Gradatamente una parte del bosco at­tira la mia attenzione, e poi un albero, ed eventualmente un ramo di un albero. I miei pensieri sparsi si concentrano su un'unica esperienza e poi si immergono sempre più profondamente solo in quella realtà (l'universo in un filo d'erba). Spesso il risultato è che la mia attenzione è assorbita da qualche piccolo fiore o da qualche foglia ai miei piedi che non avevo notato prima, e sono nella pace!
Abbiamo trattato varie tecniche per raggiungere una pace attenta davanti al Signore. Non tutte sono proprio preghiere - cioè un incontro personale con Dio nell'amore - ma sono normali prerequisiti per la preghiera. Lo sforzo per arrivare alla pace spesso può esse­re lo sforzo principale per il principiante. Oggi in particolare, che viviamo in un mondo dispersivo e distratto, il solo raggiungi­mento della tranquillità può essere la maggior impresa. Allo stes­so tempo è importante rendersi conto che, almeno per il cristiano, questo è l'unico passo preliminare. Appena cresciamo e maturia­mo nella preghiera saremo in grado di raggiungere la pace più ve­locemente e più facilmente. Infatti, se siamo costanti nella preghiera, scopriremo che la tranquillità è una cosa naturale, lo stato nel quale ci troviamo più a nostro agio. Ciò richiede tempo ed è pos­sibile che il principiante si debba sforzare parecchio in questo senso, ma è importante ricordare che è l'unico inizio.
Lo sforzo per arrivare alla pace non è preghiera. Verrà il mo­mento in cui colui che contempla dovrà chiudere gli occhi, la mu­sica di sottofondo dovrà essere spenta, anche il vagabondo dovrà sedersi e il devoto di giaculatorie dovrà stare zitto, cioè il tempo del «Fermatevi e sappiate che io sono Dio» (Sal 46,11).
 



Tratto da: Thomas H. Green, APRIRSI A DIO - Una guida alla preghiera - ed. ADP a cui rimandiamo per le note e l'approfondimento.

La Preghiera Del Cuore


Esicasmo
Esicasmo



La Preghiera Del Cuore

Con queste riflessioni, che desidero sottoporre alla vostra attenzione, è mia intenzione cercare di penetrare, possibilmente in profondità e nei vari meandri quella ricca e variegata significanza che è celata dietro il termine ESICASMO, detto anche la “Preghiera del Cuore”.
L’esistenza di una mistica del Nome divino è abbastanza conosciuta presso le varie tradizioni spirituali dei vari popoli; è a tutti noto che il “Nome” ha un rilievo del tutto particolare nel Vecchio Testamento, dove acquista una indiscussa funzione di “Rivelazione” e di “Manifestazione” di tutto quello che non può essere esprimibile con il normale linguaggio umano.
Ma una vera e propria “Teologia del Nome” la troviamo nel Nuovo Testamento, ad esempio negli Atti (2, 21 e 4, 12) ed in S. Paolo (Rom. 10, 12-13); sembra quasi di trovarsi di fronte all’applicazione del passo evangelico di Giovanni: “Padre glorifica il tuo Nome” (Gio. 12, 28) che comporta una esegesi tesa ad identificarlo con il Cristo, cioè la Rivelazione per eccellenza.
La teologia del Nome è notevolmente sviluppata nella 1 Lettera di Clemente: concedi a noi di essere soggetti al tuo Nome onnipotente ed eccellentissimo” ed è parte integrante ed essenziale del Pastore di Erma in cui le espressioni “portare il Nome” oppure “ricevere il Nome” vengono accostate al rito della “rinascita battesimale”: “se porti il suo Nome, ma non hai le sue virtù, a nulla ciò ti gioverà, infatti le. pietre che hai visto scartare avevano il Nome, ma non indossavano l’abito delle vergini” (Sim. IX, 13, 2- 3).
È interessante notare che anche presso S. Simeone, il Nuovo Teologo, si trova la dottrina che accosta il Nome, il “Carisma dei Santi”, a un arcaico rituale della “vestizione” dell’abito monastico come elementi centrali dell’antico Esicasmo.
Questa dottrina si trova anche nel Cristianesimo delle origini, dove la questione del battesimo e della vestizione dell’abito bianco relativa alla “rinascita”, che si opera appunto nel rito stesso, ha una particolare centralità.
L’invocazione del Santo Nome è intrinseco a tutti gli antichi movimenti spirituali, fino al momento in cui nella cerchia dei monaci bizantini è formalmente presente come tecnica di meditazione che prolunga l’uso rituale delle mistiche giaculatorie dei Padri.
Forse le radici dell’invocazione del Santo Nome si ritrovano nell’interiorizzazione rituale che diventa preghiera tra gli asceti del deserto; la preghiera, infatti, costituisce non un semplice “atteggiamento” di adorazione, ma uno stato di ascolto, di percezione del Nome divino che è “teologia” e “conoscenza” di Dio, che é contemplazione dell’Ineffabile per il tramiate della Sua essenza che svela se stessa nell’arcano del cuore umano.
Evagrio ci dice: “la preghiera è una conversazione dell’intelletto con Dio”, gli fa eco S. Macario l’Egiziano dicendo: “l’inesprimibile ed incomprensibile Dio si è abbassato: nella sua bontà ha rivestito le membra del corpo ed ha posto lui stesso un limite alla sua gloria, nella sua clemenza e nel suo amore per gli uomini si trasforma e s’incarna, si unisce profondamente ai Santi, ai pii, ai fedeli e diviene uno stesso Spirito con essi”.
L’importanza dell’invocazione del Nome divino sta proprio in questo valore rituale, nell’intrinseca capacità di trasformare “in interiore” il senso di tutte le altre preghiere e funzioni sacre.
La preghiera di Gesù assume un valore direi universale per la “presenza” che essa veicola ed anche per la “Rivelazione” divina che in essa è contenuta; il nome di Gesù assume un carattere di Totalità perché unifica il Divino e l’umano, partecipa alla natura dell’archetipo universale nelle sue due “dimensioni”: l’infinita e la finita, trovando nel Cristo la sintesi misteriosa ed ineffabile.
Perciò l’invocazione del Nome permette una partecipazione reale, metodica ed attiva dalla “essenzialità” divina, che si traduce in un’azione creativa della Grazia unificante le “potenze” dell’orante e lo conduce alla scoperta del “Dio in noi” testamentario, come dice S. Giovanni Crisostomo: “persevera senza sosta nel Nome di Nostro Signore Gesù, affinché il tuo cuore beva il Signore e che il Signore beva il tuo cuore, e cosi i due diventino uno”.
È facile capire che cosi articolata la preghiera di Gesù, nell’ambito della élite esicasta, rappresenta un vero e proprio aspetto “realizzativo del sacramento eucaristico”, quando si hanno tutte le condizioni indispensabili fra le quali la trasmissione regolare da parte di un Maestro della formula sacra, la cui invocazione acquista una “impronta” non presente in una semplice funzione sacra.
La tradizione esicasta permane in seno al Cristianesimo Orientale non certamente per un caso fortuito, bensì è il frutto di una precisa azione “provvidenziale”, può considerarsi il vero “cuore” del monachesimo ortodosso.
Questa tradizione è rintracciabile nei Padri del deserto che attraverso S. Gregorio giunge fino a S. Giovanni Climaco che sul Sinai attesta lo stretto legame tra il Nome ed il respiro; custodita, poi, tra gli asceti del Monte Athos troverà in S. Gregorio Palamas colui che darà una precisa ed articolata “teologia” esicasta”, nella quale molti monaci hanno ritrovato il vero significato della propria silenziosa esperienza.
D’altra parte il termine “hesychia” in greco significa quiete, si allude cioè a quella quiete che è “silenzio”, cessazione di ogni tensione, che è “apertura e disposizione” a farsi permeare dall’influsso dello Spirito di Dio.
Questo stato di quiete designa contemporaneamente due diverse esperienze: la prima è relativa a chi tende ad abbandonare il mondo e allude ad una uscita dal transeunte, la seconda è il raggiungimento della meta stessa, cioè la pace interiorizzata.
Questa designa il grado di partecipazione “eucaristica” del monaco, è il “punto” in cui egli ha trasformato il rituale e la vita culturale in ritmo interiore, nel quale “vive” il Nome stesso del Creatore, cioè la Sua Misericordia resa “operante” dal simbolo pentecostale.
La condizione idonea perché possa realizzarsi lo “status operandi” è sempre stata indicata nella fuga, in altre parole è il distacco anche fisico dalle apparenze illusorie del mondo che, non va dimenticato, condizionano tutta la vita interiore in maniera, direi, determinante.
È una fuga, un distacco dagli uomini, addirittura dalla stessa comunità monacale che si spinge fino al rifiuto di avere discepoli, la stessa, sul piano interiore è una fuga da se stessi, da ciò che è ancora umano, personale ed egoistico.
È quindi una tensione costante alla ricerca dell’incontro con Dio che è unità, è la scoperta del mistero della condizione di “Figli di Dio”, ed i simboli evangelici del “deserto” e della “montagna” qui esprimono come apparente contrapposizione: “morte e rinascita”, “dispersione ed unità”.
È comunque vero che se il ritiro nel deserto prefigura la “morte”, la sparizione dell’individualità profana, esso è solo la proiezione vissuta di una condizione interiore del monaco, nella quale egli mette a tacere oltre alle tensioni e conseguenti reazioni, che fanno percepire il mondo nella sua apparente dualità e molteplicità, anche tutti gli stati psichici che danno origine alle suddette contrapposizioni.
Tutto quel vasto ed articolato complesso di sensazioni che si esprimono nella sfera della vita psichica, causa determinante per ogni uomo della sua specificità ed individualità, viene “abbandonato” rifiutato in quello stato di solitudine.
Questa solitudine, infatti, interiormente si esprime con il silenzio, con il ridurre tutto all’essenzialità di ogni gesto comunicativo, alla cessazione di ogni tensione espressiva.
Ma questa solitudine, questo silenzio, non ha solo l’aspetto “negativo” ma rivela anche una dimensione positiva ed attiva se viene “usato” dall’esicasta quando vuole annullare un’altra contrapposizione: “soggetto-oggetto”.
Il silenzio diventa cosi un precetto di raccoglimento, di unificazione, dove gli stessi rapporti logico-mentali, nei quali la preghiera costituisce l’oggetto da meditare, diventano un’unità liturgica che è orazione continua, è ritmo e salmodia nella quale non vi è più il monaco che desidera pregare, ma vivendo la condizione dello “status orandi” è una fusione impersonale del sovrannaturale (l’orazione) con l’elemento umano (il monaco).
Questi monaci si possono considerare veri e propri “pellegrini in terra”, si sentono cittadini del “Regnum”, la loro presenza nel mondo si può assimilare a quella degli antichi profeti, incarnazioni viventi della misericordia di Dio, vera e propria carità che veicolata per il loro tramite nel mondo mediante una testimonianza che in realtà è una “offerta sacrificale” per la redenzione del mondo.
Essendo creato ad immagine e somiglianza di Dio, l’uomo è quel microcosmo che sintetizza in sé tutti i piani dell’essere del mondo, della manifestazione.
Il punto di equilibrio spirituale, il centro di questo universo è il cuore, esso non va confuso con la sede degli impulsi e delle emozioni, anzi nell’esperienza esicasta si ha la vera percezione del “cuore” quando si è raggiunto un grado di purificazione delle limitazioni umane sufficiente a delimitare in un ristretto ambito le percezioni sensoriali.
Con l’appellativo di “altare di Dio”, il cuore è la naturale sede della Presenza divina nell’umano, è quindi l’organo per eccellenza della conoscenza spirituale, è il punto di confluenza e di unione del sovrannaturale con il naturale.
È possibile percepire la presenza del “Padre tuo che è nel segreto” come dice Matteo, quando nel centro spirituale dell’uomo apertosi sul cuore, si trova il nome di Gesù in virtù di una costante preghiera della quale quel Nome, appunto, costituisce il centro e la vera ragion d’essere.
Incentrata sulla ripetizione ritmica della formula “Signore Gesù, figlio di Dio, abbi pietà di me” questa preghiera tende a focalizzare nel cuore l’attenzione dell’orante, “svegliando” dentro di sé i contenuti dogmatici presenti in essa.
È’ un vero e proprio “ricordo” di una condizione metafisica, che abolisce ogni condizionamento temporale e fa “agire”, svegliandole, le Virtù divine che il Nome veicola.
Come ci fa notare Evdokimov, l’invocazione del Nome contiene tutti gli elementi costitutivi della tradizione cristiana, per cui il riconoscimento della signoria del Cristo, la filiazione divina e la Sua incarnazione, permettono la giusta “apertura” escatologica e quindi la percezione del mistero trinitario che è l’essenzialità più profonda e misteriosa.
Un altro aspetto dell’invocazione è di pertinenza della creatura, la quale rinuncia ai suoi limiti umani, riconosce il proprio stato ed implora il perdono misericordioso di Dio.
È con questa predisposizione che può comprendere il principio e la fine della creazione, pertanto è, con gli elementi che costituiscono l’invocazione, che si riuniscono il Creatore e la creatura riscattata e ne configurano la Gloria trasfigurante.
Non va dimenticato quanto asserisce S. Gregorio Palamas a proposito de1 corpo che non costituisce una oscura e, certamente, non gratificante prigione dello spirito, ma anzi è il ricettacolo del divino, il quale “poiché è confuso in noi ed esiste in noi, illumina l’anima proprio dal di dentro”.
Nella quotidiana esperienza umana il fluire delle sensazioni, delle percezioni logico-mentali, determina una continua mobilità ed agitazione del corpo che vive nel disordine del continuo divenire, che altera l’equilibrio delle potenze dell’anima.
L’esicasta, pertanto, tende ad instaurare nel proprio corpo una condizione di quiete che è l’equivalente della “fuga” in precedenza citata, è necessario ricondurre il corpo alla stasi, ad una condizione di cessazione dei moti psicofisici per trovare l’equilibrio che “ferma” le correnti animiche che si esprimono nel continuo movimento del corpo.
In realtà questo placarsi del continuo divenire è già insito nella posizione dell’orazione, imprimendo una condizione ieratica simile a quella delle sacre icone, la quale “ferma” un archetipo e fa nascere nell’orante l’impronta eterna di Dio.
Dai diversi testi, si può apprendere che il monaco orante deve ritirarsi in un luogo appartato, sedere su uno sgabello abbastanza basso, appoggiare il mento sul petto con tutto il corpo curvato in avanti ed in quella posizione portare tutta la sua attenzione sull’ombelico; infatti ci dice Simeone il Giovane: “il mento ti si configga bene al petto, volgi il tuo occhio sensibile con la intera tua mente al mezzo della tua pancia, all’ombelico”.
Questa posizione, forse un po’ strana, è presente in altre forme religiose: come nello sciamanesimo cinese, nella mistica ebraica della merkavà e nella tradizione talmudica; queste ultime forse sono il perpetuarsi e l’esplicitarsi delle pratiche che hanno il loro archetipo nella preghiera del profeta Elia sul monte Carmelo, profeta che, certamente, rappresenta una figura di primo piano del monachesimo esicasta.
Concentrare il pensiero e gli stessi occhi sull’ombelico è condurre la volontà alla ricerca del “centro” del corpo, il centro è l’asse da cui si diparte l’equilibrio dell’uomo; bisogna tuttavia distinguere questo “centro” da quello del cuore dove viene a scoprirsi, come si è già detto, l’ “altare di Dio”.
L’ombelico infatti è da intendersi come il centro più propriamente psichico dell’essere umano; portare in modo costruttivo la propria attenzione in esso, propizia l’acquietarsi fino alla cessazione della sete di divagazione e dispersione, è lo spegnimento del fuoco che alimenta le passioni, è la riconversione della loro potenza in fiamma di amore e conoscenza di ordine superiore.
È necessario ed insostituibile affinare il metodo che mira a non annullare in modo coercitivo le passioni, bensì a trasformare quella forza neutra ed abissale che è alla base di esse in potenza, che l’asceta durante la meditazione utilizza per la sua purità in un mondo di pure potenze interiori.
È scoprire la forza pura dell’intelletto, che dissolve la nebbia dell’attaccamento alle cose, agli esseri, alle proprie illusioni oltre che a se stessi e fa scoprire la cristallina gioia di una contemplazione pura, in un particolare rapporto di conoscenza, non più mediata dalle costruzioni logico-mentali.
Un altro aspetto molto importante è la regolarizzazione del respiro che porta a ottenere lo stato adatto a propiziare la “scoperta” prima detta.
A dare una chiara indicazione sull’esistenza di precise tecniche di controllo del respiro è S. Giovanni Climaco, che cosi ci dice: “che il ricordo di Gesù sia unito al tuo respiro, e allora capirai l’utilità della solitudine”.
Questa tecnica del controllo del respiro non è una mera ginnastica fisiologica, bensì un mezzo per realizzare quella sinergia con le stesse parole della invocazione del Nome, fino al punto in cui la sacra formula viene essa stessa respirata scandendone i ritmi con le pulsazioni del cuore, cioè il centro spirituale dell’uomo.
Cosi attestano i racconti di un pellegrino russo: “sentii che la preghiera passava direttamente nel mio cuore, ossia che il cuore, battendo regolarmente, in qualche modo si metteva egli stesso a recitare le parole sante ad ogni battito”.
Tutto questo presuppone il superamento della “realtà” corporea, l’apertura dell’occhio della mente rivolto alla parte più interna dell’uomo che si attua grazie ed in virtù di quei legami strettissimi che esistono fra la respirazione, la circolazione del sangue ed i processi “animici” che si sviluppano nell’essere umano.
Per dirla con E. Zolla: “la respirazione esicastica riproduce, in senso opposto ed ascensivo, l’attività cosmologica divina: quando espira, Dio crea il mondo, lo plasma, lo trae in essere; quando inspira riassorbe il mondo, lo riprende.”
L’esicasta, secondo quanto è detto nella parte finale della giaculatoria, dovrà perciò inspirare per ricevere il Nome di Gesù ed espirare per cacciare il peccatore.
L’esperienza quotidiana è impregnata di una quantità di percezioni e di sensazioni che si mescolano alle immagini insorgenti dalla vasta area dell’affettività, determinandone l’attività vitale, coerente, ovviamente, con le “tendenze” di colui che percepisce una tale esperienza.
Queste “tendenze” sono messaggere di stati di coscienza, associazioni di idee, relazioni logiche, e tutte insieme formano la normale vita psicomotoria dello uomo odierno.
In questo articolato caleidoscopio psico-percettivo, è necessario inserire ancora quelle inclinazioni ed eredità connaturate, che la “memoria” gelosamente custodisce e conserva, ottenendo come risultante da tutta questa congerie quel pensiero che, come una scimmia impazzita, non è possibile “fermare” e controllare.
Il pensiero cosi strutturato crea dei “nodi” che presiedono alle formulazioni logiche, ingabbia ogni pensiero unificato e non permette cosi all’essere umano di sottrarsi a quella rete di catene mentali che riducono la creatività fino ad annullarla.
Ne consegue che ogni giudizio è necessariamente “legato”, quindi il suo nascere è già condizionato dalla stessa condizione percettiva che mette in moto altre associazioni e giudizi, facendo nascere ulteriori “coaguli o nodi” secondari, che a loro volta determinano dei giudizi di valore, tali da rendere del tutto impossibili ogni vera attenzione ed ulteriore concentrazione.
Credo, comunque, che tutto questo “stato depressivo” e teso all’esteriore sia il risultato di un subdolo condizionamento che il nostro corpo mentale riceve dalla nostra struttura psichica.
Per poter uscire da questo stato “errante” è necessario che il nostro pensiero ritorni in quella “zona” nella quale non si produce più associazioni, rapporti logici o pseudo tali; si tratta di svincolarlo da ogni attaccamento, riportandolo a quella “nudità” ed essenzialità che lo rende puro pensiero, il quale unifica il campo della coscienza dispersa.
L’azione sul pensiero non è solo frutto di una attitudine ascetica, ma è basata su una precisa dottrina della “teoria della Parola” e scaturisce dalla riflessione sulla teologia del Verbo.
Verbo che trova nel pensiero e nella parola umana il suo pallido riflesso senza luce e senza calore, che si cristallizza nell’articolazione della logica e dei suoni.
Questa teoria ha la sua origine mistica, ancora una volta, nella dottrina del Nome divino quale “incontro” dell’Infinito con il finito, dell’Eterno con il temporale ed umano.
Questa particolare, articolata e continua invocazione del Nome di Gesù non è certamente frutto di un atteggiamento episodico ma, piuttosto, una concreta e completa dottrina trasmessa dai Padri; infatti presuppone un “metodo”, cioè una particolare disciplina sempre identica a se stessa, seppure adottata ad ogni orante, che i maestri spirituali hanno trasmesso, attraverso i secoli, per vie non sempre coincidenti con la normale prassi sacramentale.
Infatti S. Simeone, il Nuovo Teologo, parla esplicitamente di rito con “imposizioni delle mani”, che è il mezzo veicolante, da maestro a discepolo dell’influenza divina cioè della presenza dello “Spirito Santo”.
Questo rito si distingue da quello del battesimo e acquista uno spessore iniziatico perché va ricordato che una tale trasmissione, non elargita indistintamente a tutti i monaci, è fatta risalire ad una catena ininterrotta di “Dispensatori di Grazia”, di Santi Uomini Illuminati.
L’essere esicasta comporta pertanto due modalità, due momenti: il ricevere la trasmissione della Santa Grazia con le rispettive giaculatorie ed il loro uso “tecnico” per il concreto risveglio interiore del monaco.
Questa tecnica si basa sulla conoscenza fisiologica occulta dell’uomo, nel corpo del quale vengono riconosciuti alcuni “centri” sui quali la particolare attenzione agisce come mezzo per staccare il pensiero da ogni forma di attaccamento, quindi intervenendo direttamente sui “nodi” che presiedono la sua attività e sulle sue formulazioni.
L’esicasta, per svincolare il pensiero da ogni attaccamento, porta la sua attenzione su quattro particolari centri occulti che sono: Regione cerebro-frontale, Laringe, Splenica, Cardiaca; ognuno di questi punti è l’espressione di uno “status” intellettuale e di purificazione a cui l’esicasta si porta.
L’asceta cosi facendo è in grado di sperimentare la conoscenza da cui scaturisce e si articola il pensiero e di liberarsi da tutte le sue implicazioni, nonché dalla sua tensione comunicativa.
Le esperienze che l’esicasta prova localizzando la sua attenzione sui quattro centri sono le seguenti:
1) Regione cerebro-frontale: è la sede nella quale il pensiero agisce spontaneamente ed astrattamente, qui ogni spunto meditativo viene insidiato, minacciato dalle associazioni logiche, reso vago dal movimento del pensiero che si esaurisce in una continua e sfuggente mobilità inafferrabile. L’attenzione è molto difficile, passiva e discontinua, il pensiero lavora su se stesso, ma è ancora muto.
2) Laringe: è il centro in cui il pensiero tende a formularsi e ad esprimersi, si tratta però ancora di una dimensione non espressa della parola, di un suono non vocalizzato che, tuttavia, ha una notevole autonomia e forza anche se legandola alle immagini riflesse si disperde nella discorsività. Qui il pensiero può essere fermato con la preghiera articolata su un tema trascendente e rivelato bloccandone cosi la divagazione, purificando al contempo le forze psichiche che vi si esprimono.
3) Regione Splenica: a questo punto l’esicasta giunge ad un bivio: restare nel “movimento del proprio mentale” e delle emozioni ad esso legate, oppure andare oltre superando tutte le articolazioni ed associazioni ascoltando la sua intensità. È questo il centro della trasformazione del pensiero, della contemplazione di esso come unità; la sua purificazione è abbastanza facile perché è stato staccato dagli attaccamenti per cui non ci sono più molteplicità di espressioni. L’attenzione non è più rivolta al molteplice, alle emozioni ed al divenire, ma cambia polarità dirigendosi verso il mondo intellettuale.
4) Regione Cardiaca: il pensiero è ormai libero da ogni attaccamento, è fisso e vigile affinché non vi siano più perturbamenti. Ogni percezione o analisi sarà considerata alla luce di questo stato di calma, vista nel suo significato più profondo e vero, perciò riconvertita alla luce spirituale da cui essa ha avuto origine.
In questo “centro” la preghiera non presenta più dissonanze fra il pensiero, la parola ed il gesto: essa “si recita”, utilizza i mezzi vocali ed intellettuali dell’asceta per fondersi con i suoi ritmi interiori, con lo stesso battito cardiaco che scandisce la vita quotidiana.
È facile capire che i metodi appena descritti non possono essere oggetto di un’improvvisazione spontanea ed individuale, perché essi presuppongono la figura di un Maestro il quale già possiede quella “impronta” divina che permette di trasmettere all’orante la Presenza Divina e la benedizione necessaria a sostenere l’arduo lavoro interiore.
La difficoltà a trovare oggi Maestri qualificati per una simile opera è, semplicemente, perché essi si sono per cosi dire “ritirati”, non trovando più nel mondo l’adeguata “materia” su cui intervenire e plasmare.
È comunque opinione di molti che esistono ancora dei Maestri di questa speciale via spirituale, attraverso i quali si è conservato l’antico rito delle imposizioni delle mani, che, come si è visto, è una caratteristica peculiare del vero Esicasmo e costituisce una via di trasmissione spirituale con caratteri sacramentali che è risalente al periodo apostolico ed è il veicolo specifico della discesa dello Spirito Santo.
È in quella ristretta élite sempre più inavvicinabile che bisogna cercare quei “Mediatori e Dispensatori della Grazia”, essi hanno la stessa “ricchezza” delle sacre Icone venerate nel mondo ortodosso, anzi costituiscono delle vere e proprie “Icone Viventi”, essi sono dispensatori di una Grazia senza la quale il mondo non sarebbe che il fuggevole bagliore di una fiamma che si spegne.
La straordinaria vitalità della teologia mistica orientale trova la propria ragion d’essere nell’esistenza di simili monaci che, se anche hanno lasciato frammenti e aforismi, hanno tuttavia vivificato “dal di dentro” quella tradizione spirituale, rendendola viva fino ai nostri giorni.

http://www.zen-it.com/letture/esicasmo.htm

ANTHONY BLOOM

III III III

La vera preghiera
Dio in noi
La nascita della preghiera 
Preghiera come incontro
Incontro nella verità
Il Dio vero
Leggendo la Scrittura (1)
Leggendo la Scrittura (2)
Meditare con disciplina
Metodo di meditazione
Il contrasto fra preghiera e meditazione
Lo scopo della meditazione
Vivere in modo creativo
Profondità poco profonde
L'inizio della preghiera
La condizione per una vita di preghiera
Conversione
Pentimento
Il Dio noto e il Dio ignoto
Il silenzio di Dio

III III
La vera preghiera
Dio in noi
La nascita della preghiera
Preghiera come incontro
Incontro nella verità
Il Dio vero
Leggendo la Scrittura (1)
Leggendo la Scrittura (2)
Meditare con disciplina
Metodo di meditazione
Il contrasto fra preghiera e meditazione
Lo scopo della meditazione
Vivere in modo creativo
Profondità poco profonde
L'inizio della preghiera
La condizione per una vita di preghiera
Conversione
Pentimento
Il Dio noto e il Dio ignoto
Il silenzio di Dio
Il silenzio dell'uomo
Concentrarsi su Dio e nient'altro
Pregare nel regno
Dio al primo posto
Il mistero dell'essere
Preghiera piena di significato
Al di là degli umori
L'irrilevanza delle emozioni
Volontà e vita cristiana
Disciplina nella sequela
Disciplina e grazia
Preghiera e vita
Preghiera e impegno
Preghiera cristiana
Sia fatta la tua volontà
Il silenzio della sequela
Un corpo pacificato
Preghiera purificata
Preghiera spontanea
Preghiera di convinzione


La vera preghiera
Dio in noi
La nascita della preghiera
Preghiera come incontro
Incontro nella verità
Il Dio vero
Leggendo la Scrittura (1)
Leggendo la Scrittura (2)
Meditare con disciplina
Metodo di meditazione
Il contrasto fra preghiera e meditazione
Lo scopo della meditazione
Vivere in modo creativo
Profondità poco profonde
L'inizio della preghiera
La condizione per una vita di preghiera
Conversione
Pentimento
Il Dio noto e il Dio ignoto
Il silenzio di Dio
Il silenzio dell'uomo
Concentrarsi su Dio e nient'altro
Pregare nel regno
Dio al primo posto
Il mistero dell'essere
Preghiera piena di significato
Al di là degli umori
L'irrilevanza delle emozioni
Volontà e vita cristiana
Disciplina nella sequela
Disciplina e grazia
Preghiera e vita
Preghiera e impegno
Preghiera cristiana
Sia fatta la tua volontà
Il silenzio della sequela
Un corpo pacificato
Preghiera purificata
Preghiera spontanea
Preghiera di convinzione
Preghiera continua
Preghiera costante
Domanda
Sferruzzando davanti a Dio
Il senso della presenza di Dio
Contemplazione e intercessione
Preghiera senza risposta
Preghiera del perfetto silenzio
Comunione di santi e di peccatori
Preghiera per i morti
Preghiera ai morti
La vera umiltà
Santità
La santità di Dio in noi
La chiesa come luogo santo
Corpo e anima
Perdono
Croce e incarnazione
Morte e resurrezione
In adorazione del mistero

Preghiere di San Francesco


bronzo

Preghiere di San Francesco

San Francesco è conosciuto come l’uomo che più somigliò a Cristo, «il primo dopo l’unico», come il fratello universale, come un uomo di pace e di riconciliazione, come il poverello, l’amante dei poveri, il cantore della creazione. È vero. Francesco di Assisi, però, è prima di tutto un mistico, un vero contemplativo, un innamorato di Cristo, povero e crocifisso. Francesco non è solo un uomo che prega, ma, come dice il suo biografo Tommaso da Celano, è un «uomo fatto preghiera». La presenza di Dio lo trasfigura, fino a farlo «un altro Cristo».

  • Preghiera al Crocifisso di San Damiano (1)

  • Saluto alle virtù (2)

  • Saluto alla Beata Vergine Maria (3)

  • Lodi di Dio altissimo (4)

  • Cantico di frate sole (5)

  • Lodi per ogni ora (6)

  • Esortazione alla lode di Dio (7)

  • Preghiera sul «Padre nostro» (8)

  • Ti adoriamo (9)

  • Ufficio della Passione del Signore (10)

  • Preghiera alla Trinità (11)

  • Invito a restituire tutti i beni al Signore (12)

  • Preghiera e rendimento di grazie (13)

  • Beato chi ama il Signore (14)

  • Benedizione a frate Leone (15)


  • http://www.ofm.org/francesco/pray/indexIT.html

    San Francesco preghiera vivente: la preghiera del cuore

     
      San Francesco preghiera vivente: la preghiera del cuore


    In questo paragrafo vogliamo affrontare in maniera specifica il tema della preghiera nell’esperienza di San Francesco il quale a più riprese nei suoi scritti esorta i frati ad avere sempre un cuore disponibile a Dio e tutto rivolto a Lui[30], sempre pronto alla preghiera, come è scritto nel commento al Padre nostro:


    [Tutti] ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché
    possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e nei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno[31].


    E ancora nella Regola non bollata troviamo questa ammonizione di san Francesco;


    E ovunque, noi tutti, in ogni luogo, in ogni ora e in ogni tempo, e ogni giorno e ininterrottamente crediamo veramente e umilmente e teniamo nel cuore e amiamo, onoriamo, adoriamo, serviamo, lodiamo e rendiamo grazie all’altissimo e sommo eterno Dio, Trinità e Unità, Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose e Salvatore di tutti coloro che credono e sperano in lui che è senza inizio e senza fine[32].


    Questa necessità di essere sempre alla presenza di Dio richiede che il servo di Dio abbia un cuore puro[33], distaccato – come direbbero i Padri – da ogni attaccamento passionale e preoccupazione. Così è scritto nella Regola non bollata:


    Sempre costruiamo in noi una casa e una dimora permanente a Lui, che è il Signore Dio Onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, e che dice: Vigilate dunque e pregate in ogni tempo, affinché possiate sfuggire tutti i mali che accadranno e stare davanti al Figlio dell’uomo. E quando vi mettete a pregare, dite: Padre nostro che sei nei cieli. E adoriamolo con cuore puro, poiché bisogna sempre pregare senza stancarsi mai; infatti il Padre cerca tali adoratori [34]


    È interessante vedere come in san Francesco la “purità di cuore” non ha solo l’accezione di una sorta di “pulizia morale” ma è l’atteggiamento che rende possibile la contemplazione di Dio; a tal proposito lo stesso santo nell’Ammonizione XXVII ha un’espressione che ricorda da molto vicino il modo in cui gli esicasti intendevano la purezza del cuore:


    Dove è il timore del Signore a custodire la sua casa (il cuore), ivi il nemico non può trovare via d’entrata[35].


    Per San Francesco la purezza di cuore è dunque la libertà da ogni preoccupazione terrena, è saper custodire la casa interiore[36] da ogni attacco del nemico. Nei paragrafi precedenti abbiamo avuto modo di affrontare questo tema a proposito della custodia del cuore: solo un cuore puro può vedere il Volto dell’Amato, può contemplarLo.

    La visione di Dio, nella preghiera pura degli esicasti, è detta theoria [37], essa ha sempre le radici in un cuore limpido[38], che sa disprezzare le cose del mondo:


    Beati i puri di cuore, poiché essi vedranno Dio. Veramente puri di cuore sono coloro che di­sdegnano le cose terrene e cercano le cose celesti, e non cessano mai di adorare e vedere il Signore Dio, vivo e vero, con cuore ed animo puro[39].


    Un cuore e una mente inquinati dalle passioni, da pensieri impuri, dal peccato non possono assolutamente contemplare la luce divina: per poter godere dello splendore di Dio è necessario che l’uomo riacquisti la bellezza originaria, ritornando alla condizione naturale. L’uomo è trasformato dallo Spirito: passa dall’immagine alla somiglianza con il Prototipo che é Cristo[40].

    Solo così i sensi spirituali possono godere della presenza di Dio: l’uomo prova così anche compassione per tutto il creato, per ogni creatura, come scrive Isacco di Ninive :


    Quando fai il bene, non darti pensiero dello scopo della ricompensa immediata e sarai ricompensato doppiamente da Dio. E se è possibile, [non agire] neppure per la ricompensa futura. Ma sii virtuoso al di sopra di tutto, per amore del servizio di Dio. Il desiderio dell’amore è più intimo del servizio di Dio, e più di quest’ultimo è intimo nei misteri di lui. Più di quanto l’anima sia intima al corpo […]. Cos’è la purezza? È un cuore misericordioso per ogni creatura […]. E che cos’è un cuore misericordioso? È l’incendio del cuore per ogni creatura: per gli uomini, per gli uccelli, per le bestie, per i demoni e per tutto ciò che esiste. Al loro ricordo e alla loro vista, gli occhi [di un tale individuo] versano lacrime, per la violenza della misericordia che stringe il [suo] cuore a motivo della grande compassione. Il cuore si scioglie e non può sopportare di udire o vedere un danno o una piccola sofferenza di qualche creatura. E’ per questo che egli offre preghiere con lacrime in ogni tempo, anche per gli esseri che non sono dotati di ragione, e per i nemici della verità e per coloro che la avversano, perché siano custoditi e rinsaldati; e perfino per i rettili; a motivo della sua grande misericordia, che nel suo cuore sgorga senza misura, a immagine di Dio[41].


    Anche san Francesco aveva il dono della preghiera continua, «la sua disposizione stabile era tale che, dove poteva, pregava. Questa era la sua normale disposizione del cuore»[42], come viene descritto bene da Tommaso da Celano nella sua biografia seconda:


    Quando [invece] pregava nelle selve e in luoghi solitari, riempiva i boschi di gemiti, bagnava la terra di lacrime, si batteva con la mano il petto; e lì, quasi approfittando di un luogo più intimo e riservato, dialogava spesso ad alta voce col suo Signore: rendeva conto al Giudice, supplicava il Padre, parlava all’Amico, scherzava amabilmente con lo Sposo. E in realtà, per offrire a Dio in molteplice olocausto tutte le fibre del suo cuore, considerava sotto diversi aspetti Colui che è sommamente Uno. Spesso senza muovere le labbra, meditava a lungo dentro di sé e, concentrando all’interno le potenze esteriori, si alzava con lo spirito al cielo. In tale modo dirigeva tutta la mente e l’affetto a quell’unica cosa che chiedeva, Dio: non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente[43].


    È evidente che per san Francesco la preghiera non è tanto un modo di rapportarsi a Dio ma è un atteggiamento vitale. Come il corpo ha necessità di respirare, così il cuore dell’uomo ha costantemente bisogno di attingere, nella preghiera, allo Spirito del Signore, per non morire, per non indurirsi.

    Tutti gli aspetti della spiritualità francescana che abbiamo finora esposto sono comunicanti tra loro, infatti:

    à un cuore limpido è purificato dalle passioni e disprezza ogni attaccamento mondano;

    à il cuore puro è abitato dallo Spirito del Signore che trasforma dal di dentro l’uomo; l’opera del nemico viene dall’esterno del cuore giacchè, attraverso i logismoi, egli vuole entrare nel giardino interiore. L’azione dello Spirito Santo, al contrario, opera dal di dentro dell’uomo, lo trasforma dall’immagine alla somiglianza con il Prototipo che é Cristo;

    à il cuore purificato ha l’occhio profondo e scorge i logoi in tutta la creazione che non è più nemica dell’uomo.

    à ogni creatura diventa “fratello” e “sorella”, anche la morte; la creazione eleva la mente e il cuore a Dio;

    à un cuore abitato dallo Spirito del Signore geme continuamente di fronte al volto del Signore; esso ha in dono dal Signore la preghiera continua.